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29/12/2020 - Il giudice Livatino beato, quando a Mesagne il postulatore svelò i temi del colloquio tra papa Wojtyla e i genitori del magistrato

Vi sono delle figure il cui incontro nella nostra vita non lascia indifferenti, poiché più che con le parole si esprimono con i gesti quotidiani, proprio quelli che, seppur piccoli, incidono indelebilmente sulla realtà che ci circonda.
E’ ciò che ha riferito don Giuseppe Livatino, parente e postulatore della causa di beatificazione del “magistrato ragazzino”, in occasione dell’incontro svoltosi a Mesagne l’anno scorso in cui riferiva le conclusioni del processo canonico di Rosario Livatino, di cui il Santo Padre Francesco ha recentemente autorizzato la promulgazione dei Decreti di beatificazione, poiché riconosciuto martire in odium fidei.
E nell’incontro don Giuseppe ricordava, da testimone privilegiato, che il famoso anatema di San Giovanni Paolo II ai mafiosi fu frutto dell’incontro del Papa con i genitori del magistrato ucciso e del “perché di tanto odio”, rivoltogli dalla madre piegata dal dolore.
Il postulatore ha raccontato ancora che il Papa rimase scosso da tale domanda per tutto il resto della giornata, sino a pronunciare il discorso a braccio più sentito e forte del suo pontificato. Il suo “convertitevi!” rivolto ai mafiosi nella valle dei templi di Agrigento a conclusione della messa, assolutamente non previsto dal protocollo, fu un vero punto di svolta culturale e sociale per l’isola.
Quella di Rosario Livatino era stata una vita ordinaria anche se estremamente discreta, nonostante le sue pubbliche funzioni. Infatti, solo a seguito del tragico agguato molti suoi concittadini vennero a sapere chi effettivamente fosse, colui che vedevano ogni giorno compiere il tragitto da Canicattì ad Agrigento con la propria auto, da solo, per andare in Tribunale.
Nella scarpata dove Rosario Livatino aveva tentato di sfuggire ai killer mafiosi venne trovata la sua agenda di lavoro e fin da subito gli inquirenti notarono che spesso sulle pagine erano riportate le tre lettere “STD”.
A lungo tale sigla li arrovellò, convinti che potesse essere una chiave per risolvere il delitto, finché scoprirono, con estremo stupore, che voleva dire “Sub tutela Dei”. Significava che Rosario Livatino si affidava quotidianamente al Signore non solo come cittadino, ma anche nell’esercizio della sua funzione di magistrato. Era la chiave per comprendere la sua persona.
Un rapporto con la fede che Livatino viveva profondamente. «La giustizia – scriveva ancora – è necessaria, ma non sufficiente, e può e deve essere superata dalla legge della carità che è la legge dell’amore, amore verso il prossimo e verso Dio».
Ed infatti, la motivazione che spinse i gruppi mafiosi di Palma di Montechiaro e Canicattì a colpire Rosario Livatino fu la sua nota dirittura morale per quanto riguarda l’esercizio della giustizia, radicata nella fede. Durante il processo penale sull’agguato emerse che il capo provinciale di Cosa Nostra, che abitava nello stesso stabile del giovane magistrato, lo definiva con spregio “santocchio” per la sua frequentazione della Chiesa. Dai suoi assassini Livatino era ritenuto inavvicinabile, irriducibile a tentativi di corruzione, proprio per il suo essere cattolico praticante.
E la sua fede ne caratterizzava ogni operato, dal lavoro alla vita privata. Così andava all’obitorio a pregare accanto al cadavere di mafiosi uccisi, alcuni dei quali aveva giudicato. E in un caldissimo Ferragosto andò personalmente a portare in carcere il mandato di scarcerazione per un recluso. E quando all’ufficio matricole si stupirono, lui rispose semplicemente: «All’interno del carcere c’è una persona che non deve restare neanche un minuto in più».
Un modo di essere sempre improntato ad una coerenza esemplare, sino all’estremo. Come la sua frase trovata ancora in una delle sue agende, poche parole, un programma di vita: «quando moriremo nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili». Un impegno di vita che non solo riesce a dare un senso nuovo alla quotidianità, ma che è anche viatico di santità.
Pantaleo Binetti – Responsabile Regionale Puglia Centro Studi Livatino

* Articolo pubblicato il 29/12/2020 sul quotidiano Gazzetta del Mezzogiorno - Edizione di Brindisi Sezione Cultura


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