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23/03/2015 - Periodo di comporto: ingiustizie e correzioni

In questi giorni ha assunto rilevanza mediatica nazionale il caso di un nostro concittadino gravemente ammalato e, ciononostante, licenziato dal proprio datore di lavoro per superamento del periodo di comporto. Comporto è per definizione giuridica il periodo di tempo durante il quale il lavoratore ha diritto alla conservazione del posto di lavoro nei periodi di sospensione dal rapporto lavorativo in caso di malattia o infortunio. In questo lasso di tempo, il lavoratore potrà godere dei trattamenti retributivi, secondo quanto disposto dalla legge e dai contratti collettivi, nonché dei diritti al medesimo garantiti in caso di malattia. Al termine del periodo di comporto, potrà però (nel rispetto delle norme vigenti) essere licenziato.
Infatti, in caso di malattia il datore di lavoro ha diritto di recedere dal contratto a norma dell’articolo 2118 del Codice Civile solo una volta che sia decorso il periodo stabilito dal contratto collettivo di categoria.
La materia, di per se molto delicata, presenta diverse criticità, come ha dimostrato anche il caso di cronaca citato, poiché essendo materia fondamentalmente delegata alla contrattazione collettiva, spesso comporta palesi disparita di trattamento.
Infatti, la contrattazione collettiva nazionale (CCNL) stabilisce il limite della conservazione del posto di lavoro in caso di malattia e spesso amplia la tutela del lavoratore/lavoratrice ammalato in relazione a specifiche forme patologiche.
In tutti i contratti del settore pubblico, e in molti del settore privato, è previsto un prolungamento del periodo di comporto in caso di patologie di natura oncologica o di particolare gravità. Tutti i contratti pubblici e molti contratti privati prevedono un periodo di aspettativa più o meno retribuita, o periodi di permesso, che il lavoratore può chiedere superato il periodo di comporto per evitare il licenziamento. La legge 53/2000 ha ampliato la possibilità di usufruire di vari “congedi” per situazioni familiari e personali aumentando il diritto di cura e conservando il rapporto di lavoro.
Ciononostante accade di frequentemente che il periodo di comporto si riveli non adeguato rispetto alla situazione clinica del lavoratore anche per sopravvenuti aggravamenti e/o recidive come anche che il ricorso del lavoratore all’aspettativa non retribuita comporti per il medesimo e la propria famiglia il venir meno dell’unica fonte di sostentamento.
Da un esame complessivo dei vari CCNL vigenti nei diversi comparti lavorativi, emerge chiaramente che ove vi sia stato un rinnovo più recente dell’accordo, in sede di trattativa si è tenuto conto che particolari patologie, quali quelle oncologiche ad esempio che con notevole frequenza purtroppo comportano recidive ed aggravamenti, non vadano ad incidere nel computo del periodo di comporto, come anche nel computo di permessi per terapie salvavita. E’ il caso del comparto scuola ove le sedute di chemioterapia, ipso facto comportano la facoltà del lavoratore di assentarsi per più giorni utili a smaltirne gli effetti ed i postumi.
Viceversa, contratti collettivi più datati risultano inadeguati in materia e spesso accade che il lavoratore debba ricorrere a ferie e permessi, o altre alchimie giuridiche, per poter assentarsi dal lavoro, nonostante sia notorio che l’assenza sia dovuta ai cicli di terapia.
A questo aspetto, e la relativa disparità di trattamento, si correla il fatto che gli oneri della malattia, in definitiva, ricadono sul datore di lavoro, da cui discende la sua scelta dolorosa di avvalersi della facoltà di licenziamento per l’insostenibilità del costo produttivo della loro prolungata assenza.
Quindi, appare necessario in una ottica di perequazione, da un lato prevedere una tutela paritaria e uniforme in materia per consentire a tutti i lavoratori di affrontare con serenità un evento così drammatico della propria vita che impedisce loro anche l’esercizio dell’attività lavorativa.
Dall’altro vi è anche l’esigenza di porre a carico della collettività, mediante forme obbligatorie di previdenza ed assistenza, i costi sociali della malattia per evitare che il datore di lavoro ne rimanga esposto.
A tal proposito appaiono illuminanti e preziose le dichiarazioni di S.E. l’Arcivescovo che, nel riprendere il caso del nostro concittadino ed interpretandolo nell’ottica cristiana del bene comune, invocava un intervento immediato in materia per consentire a chiunque di affrontare con dignità la malattia senza l’assillo di dover ricorrere a permessi e alchimie giuslavoriste per curarsi o affrontare addirittura lo spettro del licenziamento.

(Articolo pubblicato sul periodico diocesano “Fermento” di Marzo 2015)



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